E' il primo campo di concentramento nazista, aperto il 22 marzo del 1933, a nemmeno 2 mesi dalla nomina di Hitler a cancelliere.
Servì da modello per tutti gli altri.
Secondo le stime ufficiali vi transitarono 200.000 persone, 41.500 vi morirono, uccise dalla folle crudeltà nazista.
Molti meno rispetto ai milioni di Auschwitz, ma Dachau era appunto un modello, un luogo di lucida follia, come tutto l'operato nazista: folle e crudele ma lucido, organizzato, efficiente.
Visitando luoghi dove molte vite sono state vissute e, come in questo caso, molte persone sono morte, non posso evitare di immedesimarmi, consapevole dell'impossibilità, della distanza, è semplicemente un tentativo di avvicinarsi a qualche frammento di comprensione.
Non dell'insieme, della macropolitica mondiale dell'epoca né della micropolitca del luogo come insieme organico, quello che mi coinvolge nel profondo è tentare di immaginare ciò che hanno visto le persone che hanno vissuto quei luoghi e quelle circostanze e da lì provare a speculare sui loro pensieri, sul loro essere.
Ovunque nel mondo ho sempre incontrato persone con cui i punti di vicinanza, di comunanza, sono più forti delle distanze, culturali, geografiche, etniche.
Siamo genitori, siamo figli, siamo sposi, siamo amanti, proviamo amore, rabbia, frustrazione, speranza, desiderio, dolore.
Credo che di questo resti traccia, in qualche modo.
Credo sia per questo che, dopo pochi minuti dentro quell'enorme museo della follia e del dolore ho cambiato idea.
Non era una visita professionale, né per ricerca personale, non ero lì per fotografare ma sapevo che avrei fotografato, ovviamente. Per me, per autodifesa, per sublimare in qualche modo l'impatto emotivo.
Avevo programmato di fotografare in bianco e nero, perché è un modello comunicativo che conosco, con il quale mi trovo a mio agio, non distrae, è essenziale, appare come la scelta più logica, in quanto all'epoca dei fatti le pellicole a colori non erano diffuse, anzi nel 1933 ancora non esistevano (la prima Kodachrome arriverà nel 1935), ed infatti la nostra iconografia di quel periodo è in bianco e nero.
Poi, come dicevo, ho rapidamente cambiato idea.
E' stato per il cielo.
Ho capito che gli occhi delle persone che hanno vissuto lì non lo vedevano in bianco e nero ma a colori.
Così come l'erba, gli alberi, i mattoni.
Come ogni scelta comunicativa, il bianco e nero implica anche aspetti non sempre utili, ad esempio l'assenza dei colori può edulcorare la realtà. Inoltre, nella iconologia comune (distorta) è di per sé portatore di un qualche valore "artistico".
Non c'è nulla di artistico, a Dachau. Nulla.
La bellezza della natura rende l'orrore ancora più opprimente.
L'efficenza formale delle costruzioni genera una distorta percezione di normalità.
Abbiamo trascorso diverse ore all'interno del perimetro del campo, era una giornata nuvolosa, a tratti cadeva una pioggerella leggera.
La luce è cambiata diverse volte, velocemente.
La stessa luce che devono aver visto i prigionieri, lo stesso verde, lo stesso cielo.
Conosciamo tutti l'orrore della follia nazista, ma abbiamo davvero coscienza dell'enormità di quella follia?
Riusciamo davvero a capire i dati ed i numeri?
Questa è la mappa delle strutture di detenzione, lavoro, uccisione, e pare non sia nemmeno completa, perché alcune informazioni sono andate perdute.
Ogni quadratino, ogni triangolo, rappresenta un luogo dove persone sono state torturate, umiliate ed uccise.
Dimenticare è pericoloso, è stupido ed in qualche modo ci renderebbe complici.
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