Per me fotografare non è solamente un business da gestire al meglio perseguendo obiettivi quantitativi e di puro
profitto (per quanto anch'io necessiti di nutrimento, un po' di tepore invernale e poco altro).
E non è nemmeno solo una passione da assecondare per sentirmi appagato (nonostante la fotografia sia una parte essenziale della mia vita da oltre 30
anni).
Non è nemmeno pura arte, intesa come espressione dell'interiorità (anche se è vero che è fotografando che mi perdo e qualche volta mi
ritrovo).
Per me è un mestiere, una professione, un modo di essere.
È un quotidiano in continua evoluzione fatto di
esperienza, studio, ricerca, sperimentazione, serietà, impegno, aggiornamento, competenza, dedizione.
Come per tutti o quasi i mestieranti artigiani (i
mestieri artigianali in un modo o nell'altro ci scelgono), riscontro qualcosa di patologico nello smodato desiderio di migliorare costantemente il risultato del mio lavoro.
Per questo motivo, faccio o non faccio un sacco di
cose.
E certamente non potrei essere più lontano dal puro business, come ad esempio l'industria dei matrimoni.
Ad esempio non mi è mai passato per la mente di
affidare ad operatori terzi la realizzazione di un reportage: con me il cliente prende gli accordi e sono io personalmente che realizzo il servizio, il più delle volte, affiancato da mia moglie o da colleghi che conosco da anni, sia per arricchire il racconto con uno sguardo
diverso e diverse angolature, che per poter seguire momenti che avvengono contemporaneamente in luoghi diversi, come ad esempio la preparazione di lei e di lui, la cerimonia, il
lancio del riso, ecc.
Ed è per me ovvio che non posso accettare più di un matrimonio nello stesso giorno (talvolta nemmeno nelle 48 ore).
Qualunque sia il tipo di servizio, anche il più semplice
ed economico, non cambiano né l'attenzione né la cura dedicate a realizzarlo.
E questo vale anche per i servizi pro-bono che
talvolta mi capita di accettare, se credo nella causa.